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Luana corre veloce

07/06/2021 11:20

Redazione

Lavoro e Sfruttamento,

Luana corre veloce

. Oltre la retorica di una solidarietà “inefficace ”. E’ necessaria l’introduzione del reato di “omicidio sui luoghi di lavoro”. Quasi un mese fa in u

. Oltre la retorica di una solidarietà “inefficace ”. E’ necessaria l’introduzione del reato di “omicidio sui luoghi di lavoro”. Quasi un mese fa in una fabbrica tessile di Montemurlo in provincia di Prato, ha perso la vita sul lavoro Luana D’Orazio di appena ventidue anni restando stritolata dall’orditoio presso cui lavorava. Al fatto, che anche in ragione della giovane età della vittima ha sollevato profonda impressione, sono seguite vicinanza delle istituzioni, proclamazione del lutto cittadino e regionale, comunicati di denuncia, prese di posizione di più soggetti ed attori del tessuto democratico. Si trattava di una lavoratrice, madre sola di un figlio piccolo. Di un soggetto economicamente fragile. Di uno dei tanti soggetti “invisibili” che faticano e tribolano sulla soglia di una quotidianità socialmente incerta. Di quelli che lottano per un pezzo di pane, un po’ di speranza, uno spiraglio di vita migliore, un futuro. Di quelli a cui, soprattutto di questi tempi, qualcuno incontrandoli dà una pacca sulla spalla dicendo “lo so bimba , lavori tanto, ma tira via; intanto un lavoro ce l’hai! Lo sai quanta gente, in questo momento è a casa e sta peggio di te?”, quasi ad anticipare e più spesso a tacitare -tra resa e rassegnazione, cinismo e preteso realismo-eventuali osservazioni critiche; quasi ad impedire che il suo sguardo, la consapevolezza di sé e del mondo si alzi oltre l’orizzonte del telaio. Parliamo di uomini e donne che in un bacino produttivo strategico come quello pratese (formidabile laboratorio del Made in Italy, terra di innovazione ed insieme luogo iper competitivo e feroce ), operano ai margini dei cicli produttivi complessi che caratterizzano gli insediamenti più consistenti, spesso lavorando in regime di auto sfruttamento, in piccoli laboratori dove si corre veloce , non si guarda all’orario e se necessario ai giorni scritti in rosso sul calendario. Telai che a Prato, non sono solo la dotazione industriale di piccoli capannoni e grandi aziende, ma talora -in un far west produttivo-anche quella di garage e di cantine, quando non addirittura strumento di lavoro direttamente presente nelle case. In un quadro siffatto, il lavoro non vale in via diretta quale leva di emancipazione. Al contrario, tra “emerso, nero o aggiuntivo”, esso degrada sempre più verso il disconoscimento di diritti, di certezze circa la necessaria sicurezza, di formazione e corretto esercizio della manutenzione, in un intreccio opaco tra salari legali minimi e “fuori busta” pagati forfettariamente. Il tutto, a fronte di un monte ore lavorato variabile che nega contratti, rispetto delle pause e fa del lavoro straordinario regola e abuso. Ciò che vale è solo il cottimo, il risparmio, la commessa e i tempi di consegna che scaricano soprattutto sulle micro imprese il peso di una lotta tra chi a fatica ce la fa ad arrivare al prossimo mese e a “stare sopra il pelo dell’acqua”; e chi “beve”, è travolto dalle scadenze dei pagamenti, dalla minaccia dell’interruzione della fornitura di materia prima, dal passivo bancario che si accumula, dalla stagnazione -soprattutto in epoca di lockdown- che ha rallentato richieste e azzoppato duramente il ciclo produttivo. Quel pezzo di pane che guadagni diviene allora amaro. La libertà (minima) dal bisogno conquistata mese dopo mese, è pagata a caro prezzo e tra questi, il rischio dettato dai ritmi, talora dalla mancanza di strumentazioni, di presidi e controlli adeguati sulla sicurezza. E’ così che di lavoro si può morire e non tornare a casa! Anche Luana andava veloce. Pare (sono in tal senso in corso accertamenti da parte dell’autorità giudiziaria) che l’orditoio a cui lavorava non entrasse in funzione senza che il cancello di protezione e le fotocellule fossero attivate. Dispositivi che servivano a tenere lontani gli operai durante il ciclo di lavorazione. Al contrario, nell’ipotesi della procura, il suo macchinario era in funzione con la saracinesca sollevata. Una manomissione dell’impianto elettrico che non si poteva fare facilmente né poteva essere prodotta casualmente o da persona inesperta. Il tutto a quale fine? Per velocizzare i tempi di lavoro: se un filo si intreccia bisogna prima spegnere il macchinario, alzare la saracinesca e intervenire. Con i sistemi di sicurezza disattivati il ciclo di lavoro è invece più veloce. In sostanza l’obbiettivo era quello di produrre più velocemente, anche al prezzo di nessuna sicurezza in caso di incidente. E’ questo il modo in cui è andata, in nome del profitto che si è mangiato la vita di Luana. A ventidue anni non pensi che puoi morire. Non te . Non così. Ti alzi e corri a fare il mestiere di operaia tessile mentre pensi al bimbo che va tirato su, alle medicine da comprare, al covid-19 che non ti ha fatto più andare a ballare e vedere amici, alle bollette da pagare, alla lista della spesa che hai nella borsa, all’appuntamento dal medico e forse, anche, a ricostruirti una nuova vita con un compagno che ti voglia bene davvero. La sua morte, come una meteora tragica, ha acceso per breve tempo l’attenzione dei media, del mondo “grande e terribile” degli affari e dei pescecani d’oggigiorno, dei miti patinati e luccicanti che galoppano accanto alle nuove povertà e ingiustizie del nostro presente. Così, talk show e cronache nerorosa si sono occupate per un breve periodo anche della giovane madre stritolata dalla macchina che le dava pane, in un caleidoscopio mediatico fatto di autentico dolore popolare e cordoglio di facciata, di denunce argomentate circa quanto sia facile morire in Italia sul lavoro, e richiami ipocriti ad un “ faremo, miglioreremo, vigileremo. ” Una notizia quella della morte di Luana, finita nel tritacarne di un’informazione che tutto racconta e molto banalizza. Tra notizie di femminicidi e rapine, gli orrori di una politica spesso ridotta a scandalo e affarismo privo di principi, il commento relativo ad altre morti sul lavoro, flash d’agenzia su altri disgraziati dispersi in mare e cronache di vecchi processi, gare di cucina all’ora di pranzo e puntualizzazioni sulla vaccinazione anti covid-19 che talora ha funzionato e più spesso ha arrancato (soprattutto in Toscana). E ancora tra la protesta degli esercenti, la movida che riprende sui navigli a Milano e gli stacchi pubblicitari, i fiori e i messaggi nell’occasione lasciati per affetto e tenerezza presso la casa di Luana, le interviste alla madre affranta e l’avvio di una raccolta fondi perché il “ suo bambino dovrà avere un futuro migliore.” Un’Italia “piangente” e delle elemosine, non del riscatto del lavoro e dei diritti. L’Italia “del cuore” e dell’orrore dei luoghi comuni. Quella “del tanto non cambierà mai nulla” e quella delle “frasi fatte” dei nuovi, tanti, moderni indifferenti. Guai se nell’occasione data non vi fossero state denuncia, indignazione, protesta e solidarietà! Ma Luana è morta non per fatalità, ma per un sistema che calpesta la vita dei più deboli, li sfrutta e li umilia. Che calcola quale costo e prezzo da mettere in conto, a piè di lista del bilancio umano e sociale della competizione dettata dalle leggi del mercato -di questo mercato capitalistico e di questa data organizzazione sociale-anche morti come la sua e con lei, quella di chi è caduto sul lavoro senza neanche fare notizia; socialmente semi invisibile in vita, del tutto invisibile in morte. Le chiamano “morti bianche”. Non è così. Si tratta invece di morti “rosse” di vergogna per i controlli quasi sempre non garantiti e fatti adeguatamente. Di morti “nerissime” per la dignità calpestata dei lavoratori. Di morti “sospese”, in attesa di una giustizia che quando non arriva tardi, si spreca in raccomandazioni e talora in sanzioni economiche e di carattere amministrativo per le aziende e i datori di lavoro. Le morti sul lavoro non sono solo una vergogna civile del Paese, una mattanza intollerabile di volta in volta da piangersi e poi dimenticare così come troppo spesso accade; ma un esempio concreto di come -davvero oltre gli appelli d’occasione-questo sistema abbia per proprio asse di riferimento e paradigma non la centralità della vita di milioni di uomini e donne, non la loro crescita umana e liberazione; ma il profitto, lo sfruttamento, l’assoggettamento ad un sistema che viene offerto e narrato come “dato di natura” non superabile. Invece la realtà deve e può cambiare. Noi comunisti non ci stiamo ad osservare le morti sul lavoro e più in generale lo sfruttamento come dato “fatale”, così come potremmo osservare -disarmati ed inerti-la grandine che cade e distrugge (naturalmente, con mira infallibile quando si tratta di scaricarsi sui più deboli e indifesi). Chiediamo che innanzitutto si facciano rispettare le leggi che esistono. Che si implementino i controlli e si investa sul serio informazione e dotazioni per la sicurezza. Che si introduca il reato di “omicidio sui luoghi di lavoro", come norma distinta e a sé stante da prevedersi e regolamentarsi all’interno dei Codici e nella prassi giurisprudenziale italiana. Chiediamo che la sicurezza sia assunta a premessa di ogni trattativa. La sicurezza non si contratta, la sicurezza si pretende! Chiediamo che a partire dalla lotta per la difesa della vita sui luoghi di lavoro, si alzi una mobilitazione di lotta che non rincorre le disgrazie e le morti, ma le previene ed impedisce. Se c’è una lezione che tragicamente rimane attuale e vera circa la lunga storia di lotte, di dolore e di riscatto del movimento operaio, è che nulla è stato conquistato senza dure battaglie. Nulla è piovuto benevolmente dal cielo per compassionevole gratitudine. Si chiama lotta di classe. Quella trincea infinita di battaglie in cui, a schiena dritta, i deboli e i subalterni hanno riempito di significato due parole oggi più che mai essenziali: dignità e futuro. Patrizio Andreoli - Segreteria Nazionale Pc

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